Luglio 2025
Diario di un'infermiera: una madre
DIARIO DI UN’INFERMIERA
Spesso mi viene chiesto: “Ma come fai a fare questo lavoro?”
Le persone rifuggono il pensiero della morte e della sofferenza, lo evitano, lo rimandano.
Io invece ho scelto di svolgere una professione dove la quotidianità è il dolore, la disperazione e la morte.
A volte è difficile, da alcune visite se ne esce svuotati, però questo lavoro mi offre una grande opportunità: capire i valori importanti della vita, che alla fine si riassumono nelle persone che ti vogliono bene e che ti accompagnano amorevolmente nell’ultimo tratto di strada.
E poi mi permette di scoprire storie di vita e di raccogliere emozioni, di conoscere persone che mi arricchiscono.
Alcune storie mi colpiscono in modo particolare e ritengo che meritino di essere ricordate.
Da questa riflessione nascono dei racconti, che vorrei condividere con voi…
UNA MADRE
“Perché non prende me?”
F. si copre il viso con le mani e scuote la testa, piange. “Io ci speravo ancora, si era un po’ ripresa appena tornata a casa dall’ospedale”.
Le abbiamo appena detto che la situazione sta peggiorando.
Tutti sapevano che saremmo arrivati a questo punto: da due giorni i ripetuti picchi di febbre, le difficoltà nel parlare, l’estrema stanchezza.
È lì da vedere ma i suoi occhi non vogliono farlo, attenti solo a percepire ogni piccolo segno di miglioramento.
Fino a ieri alla fine di ogni visita F. mi accompagnava alla porta e la frase era sempre la stessa: “Come la vede oggi?”, alla costante ricerca di un indizio a sostegno della sua speranza.
È la mamma di M.A., una donna di soli cinquantatré anni, ormai alla fine del suo percorso di malattia oncologica. Ripetuti ricoveri nei mesi scorsi, nel tentativo di curare o almeno di contenere i danni di una terribile malattia, scoperta per caso con una radiografia dopo un incidente domestico, in piena salute ma già troppo tardi.
Eppure madre e figlia hanno accettato di tutto e di più: le lunghe degenze, indagini invasive, chemio e radioterapia, ma nulla è servito.
Lei sempre accanto alla figlia, instancabile. La cura come se fosse tornata bambina, lavandola e cambiandola; la troviamo sempre pulita e profumata, le lenzuola fresche e senza una grinza. La coccola, la sostiene nei momenti bui, ride e piange con lei.
È vedova e M.A. è la sua unica figlia. Al marito morto chiede: “Perché la vuoi portare su con te?”.
Rabbia e disperazione, domande che restano senza risposta: “Perché a noi?”.
Si aggira come un’ape operosa nella casa della figlia, pronta ad accorrere al richiamo di: “mamma!” sempre più flebile.
La chiama Tata, Nana, con un tono calmo e dolce, riservato solo a lei. Previene e soddisfa ogni sua richiesta: un sorso d’acqua, la frutta tagliata a pezzetti, il cuscino sistemato al meglio sotto al capo che porta i segni della neurochirurgia. Me la vedo che le misura la temperatura rettale come si faceva un tempo ai bambini, perché nell’ascella il termometro la infastidisce.
Quando ancora M.A. era lucida, ma anche adesso negli sprazzi di coscienza, il suo maggior cruccio era di far soffrire la mamma, di non poterle stare accanto nella vecchiaia. Ieri mi ha detto: “Lei è sempre stata il mio porto sicuro”. L’ho riportato a F. che si è commossa, ma subito dopo ha pensato a prepararle il budino in due versioni, con e senza savoiardi.
M.A. aveva aspettato due giorni prima di comunicarle la diagnosi, tenendosi tutto dentro. “Chissà cos’ha passato in quei due giorni!”, ci racconta F.
Si proteggono a vicenda, è troppo forte l’amore che le unisce, vivono in simbiosi.
Inutile dirle di sedersi, di risparmiarsi, di farsi aiutare dagli altri familiari, presenti e premurosi. Ma la sua Nana la può curare al meglio solo lei, non la si può tenere lontana dalla sua stanza, è impossibile, starà lì sino alla fine: è una madre.