Settembre 2025
Diario di un'infermiera: nel silenzio
DIARIO DI UN INFERMIERA
Spesso mi viene chiesto: “Ma come fai a fare questo lavoro?” Le persone rifuggono il pensiero della morte e della sofferenza, lo evitano, lo rimandano. Io invece ho scelto di svolgere una professione dove la quotidianità è il dolore, la disperazione e la morte. A volte è difficile, da alcune visite se ne esce svuotati, però questo lavoro mi offre una grande opportunità: capire i valori importanti della vita, che alla fine si riassumono nelle persone che ti vogliono bene e che ti accompagnano amorevolmente nell’ultimo tratto di strada. E poi mi permette di scoprire storie di vita e di raccogliere emozioni, di conoscere persone che mi arricchiscono.
Alcune storie mi colpiscono in modo particolare e ritengo che meritino di essere ricordate.
Da questa riflessione nascono dei racconti, che vorrei condividere con voi
NEL SILENZIO
Ti colpisce il silenzio della casa.
La si può raggiungere solo a piedi, percorrendo un sentiero affacciato sul lago, un panorama che riscalda il cuore e che dà conforto alla fine della visita domiciliare.
Quando esco da alcune case, dove il dolore ti entra dentro e ti resta attaccato alla pelle, ho bisogno di fare profondi respiri per eliminare quel peso, per fare entrare nel corpo una sferzata di vita.
C’è sempre silenzio nella casa della mia paziente. G. parla poco.
“Cosa posso farci?” dice. E aspetta…
Cosa può passare nella mente di una persona che sta aspettando una morte sicura?
I primi tempi G. non manifestava nessuna sofferenza: rassegnata, composta, silenziosa. E come lei la sua famiglia. Il marito sempre pacato, un dolore quieto, alle prese con i piatti più stuzzicanti per stimolare lo scarso appetito della moglie, come sempre accade nei pazienti oncologici nel fine vita. Una lotta impari contro un male che non dà scampo, ma lui è contento quando G. mangia due ravioli, un morso di pizza, qualche cucchiaio di tiramisù.
G. è una donna minuta, non è mai stata grassa, ma ora sta scomparendo di giorno in giorno nei suoi pigiamini dai colori tenui, sempre più larghi.
La malattia prosegue, la consuma; mangiare qualcosa è una tortura, tutto ha un cattivo sapore, la nausea la tormenta.
Questa attesa comincia a logorarla, inizia a non poterne più. Passa sempre più tempo a letto, che sin dall’inizio della malattia rappresenta il suo rifugio.
“Io a letto sto bene”. Tiene gli occhi chiusi anche se non dorme, come per isolarsi dalla una realtà che si fa ogni giorno sempre più insopportabile.
È sul suo letto matrimoniale che mi siedo per starle più accanto in una delle ultime visite. Piange per la prima volta, sfinita dall’attesa. Il marito e il figlio si affacciano sulla stanza, in silenzio.
Ultima visita. G. è a letto, inquieta, gira la testa sul cuscino in modo frenetico da un lato all’altro, il viso contratto, gli occhi serrati; tutto il corpo si contorce per questo insieme fatto di dolore, ansia, paura, desiderio che sia finita al più presto.
Le chiedo se vuole dormire. È l’unico aiuto che posso darle perché possa staccare la mente da una realtà non più sopportabile, mentre la malattia farà il suo corso. Lei accetta ma prima vuole vedere il prete.
“Non si perdeva una messa”, dice il figlio.
Morirà la mattina dopo, senza più svegliarsi.
Il giorno del funerale è una splendida giornata di sole ma ventosa.
“Come quando ci siamo sposati”, commenta il marito.